Europa, promessa di pace

Europa, promessa di pace

Un convegno in Vaticano per ripensare l’Europa, la presenza di Insieme per l’Europa

«In questo tempo, i cristiani sono chiamati a ridare un’anima all’Europa, a ridestarne la coscienza, non per occupare degli spazi, ma per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società». Con questo augurio papa Francesco ha concluso il suo incontro con i 350 partecipanti al convegno tenuto in Vaticano dalla Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea (Comece) in collaborazione con la Segreteria di Stato. Tema: “(Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del Progetto Europeo” (27-29 ottobre 2017). Nell’indire questo incontro si è voluto cogliere l’opportunità di dire qual è il contributo dei cristiani al progetto europeo, con la speranza che il dialogo messo in atto possa essere di aiuto per l’Europa e le sue istituzioni in questo momento assai critico.

Un quadro su realtà, prospettive, sfide e speranze del continente era stato tracciato nei giorni precedenti dal cardinale Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, presidente della Comece. In gioco questioni come l’ambiente, il mondo del lavoro, la crisi dei profughi, da affrontare – affermava – «con uno sguardo lucido sul nostro presente e soprattutto sul futuro».

Per mons. Jorge Ortiga, arcivescovo di Braga e delegato della Conferenza Episcopale Portoghese alla Comece, «l’Unione europea ha bisogno di un’anima, di qualcosa di nuovo. Non si tratta di guardare soltanto al territorio o all’economia. È la responsabilità di costruire un’unica società, espressione di un unico corpo, ma nella diversità, nel rispetto di ogni cultura, di ogni paese, in ciò che c’è di caratteristico».

András Fejerdy, professore all’Università Cattolica di Budapest, costata che «anche se il muro di Berlino è caduto ormai 25 anni fa, il muro nelle nostre teste non è ancora caduto. Forse noi che viviamo nella parte orientale dell’Europa conosciamo meglio la storia, la cultura, il pensiero degli occidentali. Invece dall’altra parte affrontiamo molte incomprensioni a causa di una non conoscenza. Al workshop a cui partecipavo vi erano rappresentanti dell’Est e del Sud europeo. Era interessante vedere che condividiamo le stesse speranze e le stesse paure rispetto al futuro dell’Europa».

E Katrien Verhegge, direttore generale di Kind en Gezin, Belgio: «In questo contesto portiamo il nostro messaggio di unità e diversità. Per me significa ritornare all’essenziale: l’amore e la regola d’oro. Possiamo unirci attorno alla regola d’oro “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Se ripartissimo da questo per ripensare l’Europa faremo già un passo avanti».

Per Pedro Vaz Patto, presidente della Commissione Justitia et Pax del Portogallo, il momento attuale è di «crisi di fiducia nell’Europa. Abbiamo cercato di dare il nostro contributo come cristiani a questa Europa che è sempre in cerca di un’anima. Il motto dell’UE è “unità nella diversità”. Noi cristiani crediamo in un Dio che è uno e trino. Dunque, questa nostra fede ci aiuta a vivere quest’unità nella diversità, prima di tutto con la nostra testimonianza. Fra Movimenti cristiani, Chiese, persone».

Tra i partecipanti all’incontro Ilona Toth, incaricata del Movimento dei Focolari per Insieme per l’Europa, progetto che vede convergere Comunità e Movimenti cristiani di diverse Chiese – attualmente oltre 300, diffusi in tutto il Continente – con la propria autonomia, che agiscono in rete per scopi condivisi, portando il contributo del proprio carisma. «Un progetto, afferma, che era di casa nel contesto del presente incontro e che ha richiamato l’interesse. Siamo stati invitati a Bruxelles per avviare una collaborazione, considerando l’importanza di responsabilizzare i popoli dell’Europa nella costruzione della loro storia».

Di rilievo la presenza di responsabili di varie Chiese, tra cui il Presidente della Chiesa evangelica in Germania (EKD), il Vescovo luterano Heinrich Bedford-Strohm, e rappresentanti della Conferenza delle Chiese europee (CEC): il segretario generale, P. Heikki Huttunen e la vicepresidente, Rev. Karin Burstrand. 

L’impegno dei cristiani in Europa, parole di Papa Francesco a conclusione del suo intervento, «deve costituire una promessa di pace». Non è questo «il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace».

Fonte: SIF  

Discorso di Papa Francesco> 

Articolo Arcistampa>

Articolo FarodiRoma>

Articolo SIR>

Video: https://vimeo.com/240377109

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Amici di Insieme per l’Europa a Vienna

Amici di Insieme per l’Europa a Vienna

Dal 9 al 11 novembre 2017, gli “Amici” di Insieme per l’Europa convergono per il loro congresso annuale a Vienna, porta tra Est e Ovest del continente europeo.

Sono attesi 120 partecipanti da ca. 20 Paesi dell’Europa dell’Est e dell’Ovest di 40 Movimenti. Scopo principale è uno scambio su tre tematiche:

  1. Quale cultura nasce dalla storia di Insieme per l‘Europa?
  2. In che cosa consiste il nostro contributo specifico all‘Europa?
  3. Dialogo tra Est e Ovest: un arricchimento reciproco

La rete delle persone che con quest’incontro vogliono rinnovare la comunione tra i loro carismi, si estende dall’Inghilterra alla Russia, dal Portogallo alla Grecia. La loro missione comune: costruire un’Europa unita e multiforme, con una forte coesione sociale nella molteplicità culturale.

Nel giorno d’arrivo, il 9 novembre 2017, nella Cattedrale di Vienna, Stephansdom, si svolgerà una preghiera ecumenica per l‘Europa, a cui sono invitati tutti coloro che desiderano la pace in Europa e in tutto il mondo.

Insieme al Cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna, al Vescovo ausiliare em. Helmuth Krätzl, al Vicario vescovile Ivan Petkin, Chiesa bulgara-ortodossa in Austria, al Chorepiskopos Emanuel Aydin, Chiesa siro-ortodossa in Austria, al delegato patriarcale P. Tiran Petrosyan, Chiesa apostolica armena, al Revd. Patrick Curran, Vicario vescovile della diocesi orientale della Chiesa anglicana in Europa, i presenti porteranno davanti a Dio i bisogni e le chance del nostro Continente. L’intenzione della preghiera è più attuale che mai: unità nella molteplicità, pace nella giustizia.

Porgeranno un saluto: Thomas Hennefeld, sovraintendente della Chiesa evangelica riformata  dell’Austria e presidente del Consiglio ecumenico delle Chiese in Austria e  Jörg Wojahn, capo della rappresentanza della Commissione Europea in Austria.

 

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Decenni di stupore

Decenni di stupore

Sotto il metaforico nome di “Oltrecortina” erano designati gli Stati che, dalla Seconda guerra mondiale fino al 1989, facevano parte del blocco comunista ed erano così chiamati per il confine ideologico “di ferro” che divideva in due parti l’Europa e che concretamente era visibile nel muro di Berlino.

Quando, per motivi di studio, sono stato a Praga, nell’allora Cecoslovacchia, il ricordo di Jan Palach era vivissimo e tra gli studenti universitari si parlava di lui come di un eroe: il 16 gennaio 1969, come torcia umana, aveva voluto attirare l’attenzione del mondo sulla disperazione che viveva il suo popolo. La mia prima sensazione è stata che nella stessa capitale vivessero due mondi uno apparente e ufficiale, l’altro nascosto, ma vivissimo.

La stessa cosa ho sperimentato in Ungheria, dove sono arrivato nel 1980. Le notizie di questi Paesi arrivavano all’Occidente calibrate e controllate… non si era saputo molto del Paese dei magiari, se non per i fatti del 1956. Ero andato a Budapest con una borsa di studio per delle ricerche sulla letteratura infantile e sotto i miei occhi è cominciata a passare una catena di sorprese.

Ciò che è successo dopo ha il sapore di miracolo: possibilità di rimanere in Ungheria non più come studente. Per le traduzioni che avevo fatto mi è stato assegnato un Premio che mi ha permesso di essere conosciuto e di ricevere la proposta di insegnamento all’Università Janus Pannonius di Pécs. Sullo sfondo di una politica manovrata da interessi più che da ideologie, immettere elementi positivi richiedeva libertà e grande responsabilità.

Un giorno in treno, mentre al confine avvenivano gli interminabili controlli delle valigie, guardando fuori dal finestrino vedevo un uccellino che saltava di qua e di là sopra il filo spinato degli steccati di confine e fu naturale chiedermi quanto tempo sarebbero durate quelle barriere. Una frase del filosofo napoletano Giambattista Vico mi diede speranza “Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano”.[1]

Subito dopo la caduta del muro di Berlino infatti, nel 1989, mi è capitato di tradurre uno studio sociologico sul fenomeno del cambiamento di nomi delle piazze e delle vie di Budapest e della sorte toccata alle statue del realismo comunista gonfie di muscoli e di vittoria, trasferite in un giardino fatto apposta, quasi uno zoo dove portare i bambini la domenica. Qualche stella rossa, per la sua grandezza e il suo peso ha atteso anni prima di scendere in basso.

Dopo 16 anni vissuti in Ungheria sono stato in altri Paesi che erano appartenuti al Patto di Varsavia, come la Slovacchia e la Polonia dove, girando un giorno per il campo di Auschwitz ho capito meglio il perché della mia esistenza ed ho ringraziato Dio di poter concorrere assieme ad altri a fare non solo dell’Europa ma del mondo intero una famiglia.

Mi è sembrata puntuale l’affermazione di Victor Hugo: «Niente al mondo è così potente quanto un’idea della quale sia giunto il tempo».[2]

di Tanino Minuta

[1 ] Giambattista Vico, Opere Vol. I, Tipografia della Sibilla, Napoli, 1834, pag. 12.

[2] http://nuovoeutile.it/222-frammenti-sulla-creativita-a-cura-di-annamaria-testa/ (altro…)

Studiare, vivere, insegnare la storia

Studiare, vivere, insegnare la storia

9 novembre 1989, data indimenticabile della storia recente: crolla il muro di Berlino. Quella sera anch’io mi trovo incollata davanti alla televisione per seguire un evento inaspettato e di cui forse tanti, soprattutto noi giovani, non coglievamo assolutamente la portata.

Sì, certo, avevo studiato a scuola e all’università, laureandomi proprio in storia moderna, gli anni della Guerra fredda e la costruzione di quella cortina di ferro che ora, in quei giorni di novembre, si stava sbriciolando inesorabilmente. Da lì a pochi mesi avremmo conosciuto dai giornali e dai dossier approfonditi la storia dei popoli della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Polonia, della Romania, i quali, con rivoluzioni più o meno pacifiche, si liberavano dal giogo settantennale dell’Unione Sovietica.

Non avrei, però, mai immaginato, il 9 novembre, che i racconti e le immagini riportate dai media si sarebbero trasformati per me in vita, in persone in carne e ossa che stavo per incontrare sulla mia strada. Era passato, infatti, solo un mese e mezzo e scendevo, alla stazione Keleti di Budapest, da un treno che da Roma, attraversando Slovenia e Croazia, mi aveva portato in Ungheria. Mi avevano, infatti, offerto un posto di insegnante di italiano e storia in un liceo della capitale. Quella sera di dicembre, nell’atmosfera fumosa dello scalo ferroviario, un gruppetto sparuto di persone ad accogliermi, larghi sorrisi e un mazzetto di fiori. Quale contrasto con la scena che mi attendeva sul piazzale: alcuni grossi camion vomitavano sul selciato decine di soldati sovietici. Sì, questo fu il mio primo impatto con un Paese dell’Est: persone normali, che riconobbi subito come di famiglia, immerse in un’atmosfera grigia e sospettosa, con i chiari segni di un “controllo” ancora in atto, pur essendo stata proclamata nell’ottobre 1989 la nascita della Repubblica di Ungheria (dovevano passare, però, un paio d’anni perché l’ultimo militare con la stella rossa sul berretto lasciasse il Paese per sempre).

I primi mesi di “libertà” costituivano una fase di transizione, sia in ambito politico sia sociale: mentre il governo democratico compiva i primi passi e doveva persino fare i conti con gli scioperi (!), i negozi lentamente presentavano una varietà di prodotti, qualcuno proveniente dall’estero. La vita quotidiana era ancora complicata, almeno per me occidentale. A casa stilavo un certo menù, un altro paio di maniche era poi trovare gli ingredienti al mercato! Un giorno, nel 1990, i tassisti e gli autotrasportatori bloccarono tutti i ponti sul Danubio per protestare contro il rincaro della benzina. Subito si formarono file interminabili per comprare il pane e i piccoli empori furono svuotati di tutto. «È come nel ’56» – sentii dire da qualcuno al mercato, sottintendendo: quando mancava il pane. In fondo la gente non riusciva ancora a credere che il peggio fosse veramente passato.

Che qui si trattasse di tutta “un’altra storia” mi divenne ancora più chiaro quando cominciai a insegnare. Non solo non avevo i libri di testo, perché quelli esistenti riportavano una versione dei fatti vista dall’occhio… di Mosca e dell’ideologia della lotta di classe. Ma mi trovavo a spiegare ai miei innocenti studenti cose per me ovvie. L’episodio più lampante lo vissi alla vigilia di Natale del 1990. Per fare conversazione in italiano, si stava parlando delle varie tradizioni natalizie del Bel Paese. Naturalmente spesi parole entusiastiche sulle rappresentazioni della Natività e sul presepe, centro di ogni famiglia italiana in quei giorni. Parlavo da più di mezz’ora, quando una brunetta, dagli ultimi banchi, alzò la mano e mi chiese: «Professoressa, ma chi è Gesù?».

di Maria Bruna Romito (altro…)